Sulla Violenza negli stadi
 
 DANIELE AZZOLINI    
 Giornalista    
Avevamo il campionato più bello del mondo,
dicevano, e forse c'è chi lo dice ancora.   Ora abbiamo il campionato
più razzista, e c'è chi lavora alacremente per farlo diventare anche il
campionato più violento.   Vedrete, prima o poi ci riusciranno, perchè
alla folle corsa verso l'abbrutimento stanno partecipando tutti, giocatori e
presidenti, tifosi e signori del Palazzo.   Ognuno porta il suo
piccolo pezzo di sterco:   prima o poi ci ritroveremo tutti sommersi.  
E non è vero che a dar prova di saldi principi razzisti, di cori e
atteggiamenti rissaioli, di invocazioni a picchiare a più non posso e di
esercitazioni in rima baciata dove un insulto non si fa mai mancare a nessuno
sia sempre il solito gruppetto di facinorosi «che certo non ha niente a che
vedere con i tifosi veri», come si ostinano a mentire tutti i presidenti delle
nostre beneamate.   Non è vero.   Sono la maggior parte,
sono Curve intere, sono autentiche legioni, ovunque, su tutti i campi d'Italia.  
Sono quelli che allo stadio dettano legge, impongono cori e parole d'ordine,
compattano e guidano, comandano.   Sono gruppi preparati a questo
unico scopo.   E hanno i loro simboli il loro linguaggio, i loro segni
di riconoscimento.   Sono gruppi da guerriglia sportiva:  
basta innescarli, prima o poi faranno il botto.   E hanno i loro capi,
riveriti e corteggiati, che tutti conoscono e tutti foraggiano.  
Biglietti gratis, facilitazioni nelle trasferte, persino passaggi aerei.  
Alzi la mano quel presidente che abbia davvero tagliato i cordoni con simili
personaggi.   Saremo lieti di stringergliela e di salutarlo come il
salvatore della patria calcistica.
Ma quanti sono i coraggiosi? Quanti sono disposti a
mettere davanti a tutto i valori di una convivenza civile tra uomini di razze
diverse? E quanti i presidenti pronti a compiere un gesto di rottura totale e
definitiva con il luridume razzista che si manifesta a ogni partita? Ci sono? Si
facciano sentire.   Stabiliscano di giocare a porte chiuse, che tanto
non sono più gli incassi dello stadio a determinare i loro bilanci.  
Condannino apertamente giocatori e allenatori che si fanno beccare in flagranza
di razzismo.   Anzi, stabiliscano regole certe e le inseriscano nei
contratti:   il primo che sbaglia trova le valigie pronte nello
spogliatoio.   Partenza immediata, e senza ritorno.   Ma non
ci sono.   E allora tenetevelo stretto questo campionato di padri di
famiglia con il pargolo al seguito che si trasformano in energumeni da stadio,
di giocatori che danno dello «zingaro» o del «negro di merda» ai loro
colleghi, di trucidoni senza rispetto nemmeno per se stessi, di simboli sensa
senso, estirpati dalla storia più atroce degli uomini (le rune, le
svastiche...) e usati come fossero gadget dalle masse giovanili senza cultura
alcuna.   Tenetevelo stretto, ma non veniteci a dire che l'Italia non
è un paese razzista.   Se lo fosse davvero, non saremmo a questo
punto, non avremmo il campionato di calcio più razzista e stupido del mondo.  
E non vedremmo quegli slogan inneggianti all'odio
straripare dalle tribune degli stadi per riversarsi nella nostra vita di tutti i
giorni, trasformarsi in modi di dire, pensare ed atteggiarsi.   Non li
sentiremmo sulla bocca dei ragazzi...   Di loro ci preoccupiamo.  
Ma sappiamo che la stupidità è un virus contagioso, e l'esecrazione non basta,
non è la medicina che possa curarlo.   Occorrerebbe una svolta, dove
tutti gli attuali portatori di sterco rinsavissero e tutti insieme si mettessero
a remare in senso contrario, giocatori e presidenti, tifosi buoni e signori del
Palazzo.   Che possa accadere oggi sta solo nel mondo dei sogni.  
Però da qualche parte bisogna cominciare.   Forse dalle mamme, alle
quali, sentitamente, rivolgiamo un appello:   proibite ai vostri figli
di andare allo stadio.